Referendum Veneto 22 ottobre , le riflessioni
Il prossimo 22 ottobre le due più importanti regioni italiane – quelle, tanto per intenderci, che la borsa la riempiono – hanno deciso di indire una consultazione popolare per chiedere ai propri cittadini se vogliono intraprendere un percorso di “autonomia”, nell’ambito dell’attuale regionalismo italiano, regolato dal Titolo V della Costituzione.
Non molti ricordano come nacque la riforma regionalista del 2001. Un centrosinistra morente cercava di raggranellare qualche voto nelle regioni settentrionali e offrì una sponda “regionalista” a un Lega che in verità era già pronta a un accordo con quello che sarebbe stato il dominus della politica italiana per i dieci anni successivi, Silvio Berlusconi.
L’articolo 116 della riforma sembrava introdurre l’idea di un regionalismo differenziato, alla spagnola. Seppure in modo piuttosto confuso per quanto riguarda la procedura da seguire, le competenze e l’autonomia finanziaria vi è uno spiraglio per chiedere “ulteriori forme e condizioni particolari da autonomia” su materie già regionali (art. 117). Il tutto avverrebbe “con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata”. Si tratta di un cantiere politico e legislativo piuttosto vago, che forse non avrebbe mai dovuto davvero aprirsi, ma che le due regioni hanno deciso di percorrere.
Apparentemente il referendum del 22 ottobre potrebbe sembrare davvero fuori tempo massimo, retaggio di una stagione politica passata e spazzata via dai venti centralisti che infuriano sull’Italia da quasi un decennio e che tendono addirittura ad attribuire alle Regioni la crisi dei conti pubblici.
Se qualcuno poi vuole collegare la “questione settentrionale” a un partito politico che la aveva utilizzata per un paio di stagioni e che ora è ben rientrato nell’alveo nazionalista, potrebbe sembrare davvero una cosa superata. Ma non è così: l’aumento costante del debito pubblico, il declino economico inarrestabile, lo sfascio della classe dirigente, il nulla di fatto politico che si succede ormai da quattro lustri, pongono la questione delle aree produttive – sia essa la bandiera di una forza politica o meno – di fatto al centro del dibattito.
Il problema è ovviamente politica, ma non strettamente partitica (anche se invero vi potrebbe essere una larvata contestazione di Maroni e Zaia nei confronti della deriva nazionalista italiana di Salvini). Infatti, perché Lombardia e Veneto si sono mosse insieme? Ossia, che cosa caratterizza oggi gli abitanti di queste regioni? La consapevolezza di essere non solo la parte più produttiva del Paese, ma anche la più danneggiata dagli attuali assetti istituzionali.
Circa un quarto di secolo fa il crollo del regime politico che tenne a battesimo la Repubblica italiana avvenne a causa di due fattori: uno internazionale e uno domestico. Il crollo del muro di Berlino e le fine della guerra fredda rendevano ovviamente obsoleto un sistema politico fondato sul conflitto USA-URSS. Ma, mentre i giudici mostravano il carattere cleptocratico della classe politica, sorgeva un movimento che, seppur confusamente affermava che il Re era nudo, ossia che la vera frattura in Italia non era fra destra e sinistra, ma fra chi la borsa la riempiva e chi la svuotava, fra chi le tasse le produceva e chi le consumava. Siccome la divisione era facilmente individuabile dal punto di vista geografico, in breve, fra Nord e Sud.
E, in effetti, al di là della retorica corrente, dopo più di un secolo e mezzo dall’unificazione, le due parti del Paese appaiono ancora estremamente lontane.
Gli storici un giorno, per far comprendere le ragioni profonde della “disunità” italiana odierna, partiranno dal 2006. Allora un referendum popolare nazionale su una riforma che nell’immaginario collettivo del Paese era in senso federalista fu approvata da Lombardia e Veneto e osteggiata da ogni altra regione. È stato un segnale inequivocabile: lombardi e veneti non vi potete in alcun modo affrancare da un sistema nel quale voi avete il compito di provvedere a tutto l’assistenzialismo fornito da questo Paese.
La richiesta era semplice nella sua essenza: quel fiume carsico di danaro che scorre costantemente verso il sud non si deve interrompere. Ogni anno, infatti, circa 75 miliardi di euro abbandono la Lombardia e il Veneto, si perdono nel raccordo anulare e in parte finiscono per foraggiare consumi improduttivi e rendite politiche in Meridione. Ma siccome cifre cosi grandi possono far girare la testa, diciamo che ogni famiglia lombarda produce in una vita di lavoro quasi mezzo milione di euro che sparisce totalmente: dalle proprie tasche e dal proprio territorio. Non esiste paragone di “residuo fiscale” così sostanzioso (il 18% del PIL lombardo) in nessun altro territorio al mondo.
Il Mezzogiorno che si rifiuta di non essere assistito è allora il cuore del “problema Italia”, ma per un motivo soprattutto culturale. Le classi dirigenti meridionali continuano a riporre le proprie speranze in quelle stesse politiche stataliste che hanno reso la loro terra l’area più depressa d’Europa.
Essere statalisti nel Sud appare però perfettamente razionale, almeno sul breve periodo. Per ogni euro di spesa pubblica sul loro territorio i contribuenti lombardi pagano 2,45 euro, mentre calabresi e molisani dovranno sborsare pochi centesimi (27) per garantirsi le stesse prestazioni da parte dello Stato.
Maroni e Zaia assicurano che si daranno da fare su questo versante (in senso davvero letterale) dopo aver ottenuto ampio mandato dai loro cittadini. Vedremo. Ogni scetticismo è legittimo: con ogni probabilità non esiste alcuna possibilità di ottenere relazioni fiscali di tipo latamente federale all’interno di una repubblica come la nostra: centralista, giacobina, una e indivisibile. Il Titolo V della Costituzione è forse il massimo e non so se sia una testa di ponte per ulteriori e innovative conquiste sul piano sostanziale. Insomma, quello che la Lombardia e il Veneto stanno facendo è apparentemente molto poco, si sostanzia in una domanda del tipo: “Volete voi che ci muoviamo davvero per vedere se attraverso il Titolo V si può forzare l’orizzonte che oggi appare ineluttabile della nostra schiavitù fiscale?”.
E tuttavia, come ben sanno gli abitanti di questo sventurato Paese, la politica è tutto fuorché concretezza. La politica è fatta di immagini, parole d’ordine, segnali, problemi sbandierati, percezioni. Sia in positivo, sia in negativo. Qualora la partecipazione popolare fosse bassissima, qualora il risultato non fosse quello auspicato il centralismo romano getterebbe calce viva su qualunque aspirazione delle popolazioni lombarde e venete all’autogoverno.
Per questo è davvero fondamentale rispondere in modo chiaro e cristallino, fornendo la forza dei numeri a una domanda politicamente debole. Per tenere viva una fiammella nell’attesa che la partita sulla Lombardia e il Veneto si apra davvero.